STORIE DI FARI
                                                        





L'EVOLUZIONE DEI FARI DALLE ORIGINI AL REGNO D'ITALIA

 Pubblicato da
 Edizioni EDITALIA, POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO,  2007
PER CONTO DEL DEMANIO
 Edizione fuori commercio

(Liberamente tratto da .....)

 
Di Annamaria "Lilla" Mariotti


Una luce che illumina la notte e guida l’uomo che su una fragile imbarcazione si dirige verso la riva è un’immagine antica, che si perde nella notte dei tempi, è diventata un mito che si è evoluta nel tempo, mentre si evolveva l’arte del navigare.


Superato un primo momento di terrore verso l’elemento sconosciuto, appena costruita la prima zattera, forse fatta di pelli o anche una canoa, ottenuta scavando un tronco d’albero, l’uomo ha scoperto molto presto che poteva muoversi agevolmente sull’acqua, forse scendendo dai fiumi, e poi, attraverso questi, arrivando al mare, dove ha imparato a spostarsi facilmente per raggiungere altre coste trasportando merci e persone. Si hanno rappresentazioni di barche risalenti all’età del ferro, forse solo piccole imbarcazioni di giunchi, come in Egitto veniva utilizzato il papiro, ma nella piramide di egiziana di Saqqara, costruita tra il 2380-2350 a.C. uno dei bassorilievi rappresenta un tipo di barca in legno con un ingegnoso sistema di alberatura che poggiava sui bordi, così da rendere più leggera l’imbarcazione. Intorno al 1200 a.C. fecero la loro comparsa nel Mediterraneo i Fenici, gli abitanti di una zona costiera oggi divisa tra Libano, Siria ed Israele, un popolo che fino ad allora era stato suddiviso in diverse tribù, e che, una volta raggiunta un’unità nazionale, cominciarono ad espandersi verso il mare, dimostrandosi i più grandi navigatori dell’antichità e portando avanti un proficuo commercio con tutte le altre popolazioni costiere, arrivando addirittura ad oltrepassare le Colonne d’Ercole, quel limite altre il quale nessuno aveva mai osato avventurarsi, convinti che al di là vortici marini e creature mostruose avrebbero inghiottito navi e uomini, fino ad arrivare a toccare le coste meridionali britanniche. In realtà non è noto il vero nome di questo misterioso popolo di navigatori, furono i Greci a chiamarli "öïéíßêüò" (phoinikòs), cioè "rossi di porpora" dal colore di quelle rosse stoffe, tinte con una strana conchiglia, che commerciavano, insieme ad olio d’oliva, vino e legno di cedro.



Crane_lighthous_modelLa navigazione all’inizio è comunque prevalentemente costiera e diurna, poi nacque la necessità di navigare anche di notte e l’uomo imparò ad orientarsi con le stelle, ma questo non basta ad evitare scogli affioranti, banchi di sabbia, correnti, ed ecco la necessità di illuminare la notte con i primi "fari", che non erano altro che falò di legna accatastata, situati nei luoghi più pericolosi per segnalare la rotta ai naviganti. Questi primi fuochi necessitavano di continua cura, dovevano restare accesi tutta la notte, sono vitali, il buio significava pericolo e morte, ci volevano uomini che si alternassero per la ricerca del combustibile e per tenerli accesi. Probabilmente i primi "guardiani del faro" erano schiavi o prigionieri, a cui toccava questo compito così gravoso.





Omero (VIII Secolo a.C.), nel XIX libro dell’Iliade paragona lo scudo sfavillante di Achille ad uno di questi fuochi :
 

"[Achille] s’imbracciò lo scudo / Che immenso e saldo di lontan splendea / Come luna, o qual fuoco ai naviganti / Sovr’alta apparso solitaria cima / Quando, lontani da’ lor cari, il vento / Li travaglia nel mar ……. "
(vv. 373-378)



Altri poeti classici dell’antichità, da Ovidio a Virgilio, hanno rappresentato il faro come un mito ispirandosi alla leggenda di Ero e Leandro, gli amanti segreti. Ero, la mitica sacerdotessa di Afrodite, aspettava ogni notte Leandro, il suo amante, sulla riva dell’Ellesponto, che lui attraversava a nuoto per raggiungerla, guidandolo con una fiaccola accesa, il faro appunto. Una notte il vento spense la luce e Leandro si perse tra i flutti, così Ero, disperata, seguì la sua sorte. Ecco la prima rappresentazione dell’immagine del fuoco, della luce che illumina il mare per guidare chi lo solca nell’oscurità della notte.



Molti secoli più tardi Virginia Wolf (1882-1941) nel suo romanzo del 1927 "Gita al Faro" ("To the lighthouse") descrive il faro della sua fanciullezza come" …….una torre argentea, nebulosa, con un occhio giallo che si apriva all’improvviso e dolcemente la sera". Con il passare del tempo il faro non ha perso nulla del suo fascino romantico.



Così dall’antichità ai tempi nostri, tra mito e leggenda, nasce questa guida ai naviganti, e con l’evolversi della navigazione commerciale vengono costruiti i primi porti sulle rotte più trafficate del Mediterraneo che vengono illuminati con i primi rudimentali fari, che spesso non sono altro che piccole torri sulla cui sommità veniva acceso un falò, oppure strutture metalliche sulle quali, per mezzo di carrucole, venivano issati dei bracieri in ferro contenenti il combustibile, composto da fasci di erba secca o legna resinosa. Ed è proprio in questo momento che, quasi contemporaneamente, fanno la loro apparizione i due fari più conosciuti di tutta l’antichità, due monumenti che non saranno mai più eguagliati.


Uno di questi, inserito intorno al 200 a.C. nell’opera "De septem orbis spectaculis", attribuita a Filone di Bisanzio, tra le sette meraviglie del mondo, è il Colosso di Rodi, un’enorme statua antropomorfa che rappresentava Elios, il dio del sole, con un braciere acceso in una mano, alta almeno 70 cubiti, circa 32 metri, secondo la descrizione di Plinio il Vecchio, il quale, in realtà, non lo aveva mai visto, essendo vissuto secoli più tardi. Pare che lo studioso romano avesse letto durante la sua vita almeno 2000 volumi, molti dei quali di storia greca, ed è possibile che ne abbia letto la descrizione in qualcuno di essi. La tradizione racconta che fosse costruito a cavallo dei due bracci del porto, con le navi che passavano tra le sue gambe, ma in realtà non si conosce la sua esatta collocazione. Questa enorme statua era stata eretta da Cario di Lindos intorno al 290 a.C. ; si racconta che fosse costruita in pietra, ricoperta da piastre di bronzo e la leggenda vuole che il suo architetto non ne abbia visto la fine, si suicidò per misteriosi motivi e non si sa chi terminò la statua. Anche se l’opera fu portata a termine in dodici anni, questo colosso ebbe poi vita breve, crollò in mare a causa di un terremoto 80 anni dopo la sua costruzione e una leggenda racconta che nel VII secolo d.C. i suoi resti vennero recuperati e venduti da un mercante ebreo a dei mercanti arabi e pare che alcune parti, molto tempo dopo, non si sa come, finirono in Italia e furono utilizzate per la costruzione, nel 1600, della famosa statua di San Carlo Borromeo ad Arona, sul Lago Maggiore, chiamata comunemente San Carlone per le sue dimensioni.



Questa rappresentazione antropomorfa di un faro non è rimasta l’unica nella storia. Pochi sanno che la Statua della Libertà, omaggio del Governo Francese a quello Americano, quando fu collocata all’ingresso del porto di New York nel 1886, con i suoi 93 metri di altezza da terra fino alla fiaccola, fu, per ordine del Congresso degli Stati Uniti, definita "Aid to navigation" (Aiuto alla navigazione), cioè un faro a tutti gli effetti, sia pure a luce fissa, era gestita dal Servizio Fari americano ed è stato elettrificato poco tempo dopo la sua collocazione, il primo faro in assoluto ad essere elettrificato negli Stati Uniti. Questo durò fino al 1902, quando la sua gestione passò al War Department e divenne in seguito il simbolo della Grande Mela.


Quasi contemporaneamente apparve il faro dei fari, il faro per eccellenza, quello che veniva considerato un’ altra delle sette meraviglie del mondo, il Faro di Alessandria, la grande città egiziana sul Mediterraneo fondata da Alessandro Magno nel 332 a.C. Questo monumento ebbe una vita lunga, ma assai travagliata. E’ stato costruito da Sostrato di Cnido intorno al 280 a.C. sull’isolotto di "ØÜñïò" (Pharos), diventato poi un promontorio, di fronte ad Alessandria, ed in seguito in tutte le lingue di origine greca e latina il nome di quella località è diventato sinonimo della struttura che illumina il mare, mentre nella lingua anglosassone il faro diventa "lighthouse", casa della luce.



La sua costruzione fu iniziata sotto il regno di Tolomeo I° (305-283 a.C.), che era stato un generale di Alessandro Magno, e venne terminata durante il regno di suo figlio Tolomeo II° (285-246 a.c.), i Faraoni di un Egitto ormai ellenizzato, l’ultima dinastia di Faraoni che sarebbe terminata con la morte di Cleopatra nel 30 a.C. e con la dominazione romana. Era la struttura di segnalazione più famosa al mondo, era alta 120 mt., la torre era rivestita di pietra bianca e il fuoco acceso sulla sua sommità, grazie ad un gioco di specchi, poteva essere visto a più di 30 miglia di distanza. Era stata costruita in tre parti, una base quadrata alta 71 mt., una parte centrale ottagonale alta 34 metri ed una lanterna cilindrica, sulla cui sommità svettava una statua di Zeus, perché i greci Tolomei avevano portato dalla terra d’origine non solo molte delle loro tradizioni, ma anche i loro dei che avevano affiancato a quelli Egiziani. All’interno un larga rampa consentiva di portare alla lanterna, per mezzo di muli, il combustibile, composto da legna resinosa, inoltre alloggiava anche una guarnigione di soldati di guardia al porto. Nel 641 d.C. il faro fu danneggiato dall’assedio posto dagli Arabi che conquistarono Alessandria e cessò di operare, pur rimanendo al suo posto, ma venne in seguito distrutto da una serie di terremoti. Nel 700 d.C. crollò la lanterna, nel 1100 la struttura ottagonale e l’ultimo terremoto, nel 1302, fece crollare in mare anche la base quadrata che, nel frattempo, era diventata una moschea. Cosa abbia spinto a costruire un simile monumento in quel luogo ed in quell’epoca è un mistero, in quanto per molti secoli rimane l’unico al mondo del suo genere.



Nel 1995 una spedizione di archeologi subacquei francesi, guidati da Jean Yves Empereur, mentre esplorava i fondali del porto di Alessandria alla ricerca di vestigia dell’antica città, si è imbattuta in enormi blocchi di granito che sembrerebbero provenire dalla base del faro. Questo è plausibile in quanto il monumento è crollato nel XIV secolo, e non è escluso che alcune sue parti possano trovarsi ancora in fondo al mare. Comunque questo antico faro ha talmente colpito l’immaginario collettivo che lo si trova spesso rappresentato su stampe. libri e dipinti. Nel grande atrio dell ‘Empire State Building di New York è situato un pannello che rappresenta il grattacielo che irradia raggi di luce dalla sua sommità, quasi una rappresentazione allegorica del primo grande faro conosciuto dall’umanità.


Dopo questa meraviglia i fari sembrarono sparire, si ritornò ai falò, fino a quando un’altra grande civiltà si affacciò su Mediterraneo : quella dei Romani. E’ con loro che vengono costruite le prime vere torri sulla cui sommità si tiene acceso un fuoco di fascine e di legna, è con i Romani che queste torri escono dal bacino ristretto del Mediterraneo per accendersi sulle coste spagnole e francesi, arrivando fino al Canale della Manica, dovunque arrivasse la conquista romana. In Italia, a Ostia, venne costruito dall’imperatore Claudio nel 50 d.c. un porto, poi ampliato da Traiano nella forma che ancora oggi conosciamo, come sbocco sul mare della capitale, porto che è diventato presto molto importante per i traffici marittimi. Al suo ingresso fu eretto un faro che emulava quello di Alessandria, almeno nell’aspetto se non nelle dimensioni, e ancora oggi lo si può vedere rappresentato nel pavimento a mosaico del piazzale delle Corporazioni di Ostia Antica. Altri fari sorgono dovunque vi sia un porto romano, dal Tirreno all’Adriatico, e i fari vennero anche rappresentati su monete e bassorilievi. Altri fari vengono ricordati da Plinio e da Svetonio : quelli di Ravenna, Pozzuoli, Capri e Messina. Prima della caduta dell’Impero Romano 30 torri di segnalazione illuminavano il mare lungo le coste del Mediterraneo e dell’Atlantico.



Un faro costruito dai romani ed ancora in funzione, dopo 2000 anni, è quello di La Coruña, l’antica Brigantium, in Spagna, chiamato Torre de Hèrcules per via delle molte leggende che lo circondano legate al mitico eroe. Fu costruito da Caio Sevio Lupo, proveniente dalla Lusitania, l’odierno Portogallo, intorno al 100 d.C. durante il regno dell’Imperatore Traiano, fu dedicato a Marte e l’architetto pose allora alla sua base una targa con questa iscrizione che è tutt’ora leggibile :









MARTI AUG. SACR./ C. SEVIVS LUPUS /ARCHITECTUS AEMINIENSIS / LUSITANUS EX.VO

(" Consacrato a Marte / Caio Sevio Lupo / architetto di Aemium / in Lusitania, a compimento di una promessa")


Intorno al 41 d.C. era sorto vicino a Boulogne, sulla costa francese della Manica, un altro faro voluto da Caligola, il primo in quel paese, si trattava di una torre alta 37 metri, ma una volta abbandonata dai Romani aveva iniziato ad andare inesorabilmente in rovina. Sembra che lo stesso Carlomagno avesse ordinato di restaurarlo nell’800 d.C. e che sia stato acceso di tanto in tanto, ma l’erosione marina le ingiurie del tempo non lo hanno risparmiato e nel 1644 è definitivamente crollato.



Finita la gloria di Roma e caduto l’Impero Romano nel primo Medio Evo, i secoli bui che seguono oscurano anche il mare. La navigazione in questo periodo torna ad essere costiera, lungo le rotte conosciute, sono ancora lontani i tempi delle grandi esplorazioni ed il pericolo di popoli navigatori e guerrieri provenienti dal Nord che potevano arrivare all’improvviso, depredare e fuggire, scoraggiavano l’uso di segnalazioni costiere che potevano piuttosto guidare la loro rotta che aiutare naviganti in difficoltà.


Le torri erette dai romani vanno in rovina così si ritorna ai falò sulle colline nei punti pericolosi per la navigazione o a bracieri a bracci mobili posti soprattutto all’ingresso dei porti. In Inghilterra e Francia, governate già dalle grandi dinastie, sono soprattutto le torri dei monasteri in riva al mare a svolgere la funzione di fari, sempre alimentati con fascine di legna o semplicemente illuminati da candele, e gestiti da ordini monastici e dai grandi ordini religiosi cavallereschi, come i Templari, gli Ospitalieri ed i Cavalieri di Malta. In Germania la Lega Anseatica riunisce molte città costiere tedesche e scandinave e qui sorgono fari a protezione delle coste e dei porti per favorire il commercio. Ma ci sono anche dei monaci eremiti che svolgono questo compito, se ne trovano in tutta Europa : in Italia possiamo ricordare il monaco San Raineri che teneva un falò acceso a protezione dello Stretto di Messina, dove, su un vecchio bastione, nel 1857 è stato eretto un faro, ma il più famoso di tutti è certo San Venerio (560 ca. - 630), che viveva da eremita sull’Isola del Tino, nel Golfo di La Spezia e che ogni sera, all’imbrunire, accendeva un fuoco sul punto più alto dell’Isola, forse dove oggi si trovano il Forte Napoleonico ed il faro, per aiutare i naviganti di allora ad attraversare sani e salvi quel tratto di mare. Le leggende lo vogliono anche uccisore di un mostro marino che infestava la zona, ma questa è un’altra storia. Comunque San Venerio dal 1961 è diventato il protettore dei Faristi d’Italia ed in ogni faro si trova una piccola pergamena bordata di rosso con una preghiera a lui dedicata.



E’ solo a partire dai secoli XI e XII, con la ripresa dei commerci, soprattutto con l’Oriente, che lungo le coste d’Italia, su cui si affacciano le quattro Repubbliche Marinare, ma pur sempre divisa tra Signorie e Comuni, vengono erette alcune torri sulla cui sommità continuano a bruciare brugo e ginestra secca, il combustibile più comune che nasce appena alle spalle del mare. Ricordiamo la prima lanterna eretta alla foce del fiume Ausa, vicino a Rimini, sull’Adriatico, e sul Tirreno la torre di Genova, quella di Porto Pisano, che si è insabbiata poco dopo la sua costruzione, della quale ormai non rimane più niente, e sostituita in seguito con il faro di Livorno (vedi stampa), poi la torre sulle secche della Meloria, il primo faro costruito in mare aperto nel Mediterraneo, distrutto durante la battaglia navale tra Genova e Pisa nel 1284 e ricostruito nel 1712 nella forma in cui lo vediamo ancora oggi, ed il vecchio faro romano di Capo Peloro, a Messina, punto cruciale per la navigazione sulla rotta dei Crociati che si recavano in Terrasanta. Fra tutti solo i fari di Genova, ricostruito in epoca rinascimentale, e quello di Livorno, ricostruito dopo la seconda Guerra Mondiale sono ancora attivi ai giorni nostri. Il mantenimento dei fari nei porti era molto oneroso, ma veniva assicurato dalle tasse che le navi in entrata dovevano pagare alle autorità preposte per permettere la cura e l’alimentazione del fuoco sulla sommità del faro stesso. Intanto si era evoluta anche la navigazione, era entrata in uso la bussola che la rendeva più sicura, e vennero anche redatti i primi portolani che riportavano le posizioni dei fari.



Il faro era diventato anche uno strumento di morte in mano ai pirati, soprattutto lungo le coste frastagliate del Nord Europa, ma anche nel Mediterraneo. Questi razziatori feroci usavano accendere dei fuochi proprio dove si trovava il pericolo, per attirare le navi che andavano ad arenarsi sulle secche o contro qualche scogliera per poi depredarle, senza lasciare dietro di se nessuno che potesse raccontare la brutta avventura. Questo tipo di pirateria è durato per lungo tempo, in certi paesi fino al XIX Secolo, finché i falò non sono più riusciti ad imbrogliare nessuno.



Regno07LivornoIl Medio Evo viene comunemente definito l’epoca dei secoli bui, in realtà , dopo aver superato il fatidico anno 1000, quello che terrorizzava tutti con la profezia del "mille e non più mille" la letteratura e le arti ebbero un nuovo sviluppo, l’architettura ebbe la sua massima espressione nelle maestose cattedrali gotiche ed anche i fari non vennero più visti come una semplice luce che indichi la via o l’ingresso di un porto, ma come monumenti architettonici e come tali dovevano essere costruiti. Nel 1304, per volere di Cosimo I° De Medici, è stato costruito presso l’imboccatura Sud del porto di Livorno, diventato lo sbocco a mare per i traffici marittimi della Toscana, un faro alto 47 metri costituito da due torri cilindriche merlate, più larga quella alla base, più stretta quella superiore, la cui sommità era raggiungibile per mezzo di una scala che una volta era ricavata all’interno delle mura. Nel porto di Genova, alla base della collina di San Benigno, su uno scoglio proteso sul mare, esisteva già, fin dal 1129, una semplice torre di segnalazione, tanto importante che un intero quartiere aveva il compito di fare la guardia alla costruzione e di rifornirla di combustibile. Nel 1371 anche questo faro aveva già subito delle trasformazioni, un disegno tratto a penna sulla copertina di un manuale dei "Salvatori del Porto" ce lo mostra come una costruzione a tre livelli, con merlatura ghibellina, la fazione predominante a Genova, alleggerito da finestra ad ogiva e sormontata da una lanterna, da cui poi il faro ha preso il suo nome. In questo manuale della corporazione, che gestiva sia il porto che il faro in quell’epoca, venivano registrate le spese occorrenti per la manutenzione della torre e le nomine dei guardiani. Intorno al 1405 occuparono questa posizione dei sacerdoti che posero in cima alla torre dei simboli cristiani e nel 1449 divenne uno dei guardiani del faro di Genova, che venivano chiamati "turrexani" , Antonio Colombo che risulta essere lo zio del più famoso Cristoforo. Intanto aveva fatto la sua apparizione il vetro, che, benché conosciuto fin dall’antichità più remota, ora veniva prodotto in lastre soprattutto da vetrai di Altare, vicino a Savona, noti fino dal XIII secolo, e poteva essere utilizzato per innalzare sulla sommità dei fari delle lanterne chiuse da vetri, che ne miglioravano la conduzione, in quanto vento e pioggia non minacciavano più il fuoco. Anche i combustibili sono variati nel tempo, nell’area mediterranea si dava la preferenza all’olio d’oliva, mentre nel Nord Europa veniva usato l’olio di balena. Però questi vetri non erano a ancora raffinati, erano spessi e porosi e la fuliggine li anneriva facilmente, per cui dai registri delle Corporazioni Genovesi, risultava che i "turrexani" venivano riforniti di spugne di mare, bacinelle, stracci e bianco d’uovo per la pulizia dei vetri. Bisogna spettare il 1700 perché il vetro si evolva e diventi simile a quello in uso oggi.


Regno08CordouanDurante le epoche rinascimentali e barocche il faro viene sempre più considerato una struttura architettonica che, oltre a svolgere la sua funzione, deve essere anche un monumento degno di ammirazione. In Francia Louis de Foix, verso la fine del 1500, costruì il faro di Le Cordouan, all’estuario della Gironda, nel luogo in cui già esisteva un antico faro del XII secolo, facendolo diventare un fiabesco castello in mezzo al mare, un trionfo di colonne, statue, guglie e pinnacoli, sormontato da un’elegante lanterna a 27 metri d’altezza. All’interno si trovavano due stanze reali, che nessun Re ha mai frequentato ed una cappella dove forse nessuno ha mai pregato. I lavori durarono 26 anni e de Foix non ne vide la fine, fu il figlio a portare a termine la costruzione. Questo faro venne definito "Le Roi des phares, le phare des Rois", ma si dimostrò subito inadatto a svolgere la funzione per cui era stato costruito, cioè quella di essere un faro. Ben presto vennero effettuati lavori di ristrutturazione, sparirono tutte le sovrastrutture, ed il faro fu alzato a 57 metri, con una portata di 22 miglia. Ora è sempre lì, dove lo hanno costruito, e, pur modificato, rimane sempre uno dei più monumentali ed uno dei più antichi fari di Francia.



In Inghilterra un estroso personaggio, Henry Winstanley, verso la fine del 1600, era riuscito ad erigere su Eddystone, un pericolosissimo scoglio situato all’ingresso occidentale della Manica, un fantasioso faro in legno, dotato di una grande veranda aperta, un terrazzo ed un’elaborata lanterna, sempre di legno. Era così sicuro della sua indistruttibilità che vi passava spesso la notte, ma, all’inizio del 1700, proprio durante la notte, una terribile ondata si portò via il faro con tutti quelli che si trovavano all’interno, compreso il suo costruttore. Questo faro dovette essere ricostruito altre tre volte per arrivare a resistere alle terribili tempeste che sconvolgono quei tratti di mare.



Regno10Ge_nuovoIn Italia il più bell’esempio di architettura rinascimentale lo abbiamo nel faro di Genova "la Lanterna", databile al 1129, ma ricostruito nel 1543. La torre del vecchio faro era stata tranciata da una cannonata sparata dalla stessa flotta genovese, guidata da Andrea Doria, che nel 1512 stava bombardando la città per cacciare i francesi che si erano asserragliati nel Forte Briglia, alla base della torre. Genova rimase circa trent’anni senza il suo faro, ma alla fine il Doge Andrea Centurione, con un finanziamento del Banco di San Giorgio, affidò l’incarico ad un architetto di ricostruirlo. Sul nome di questo architetto le fonti non sono concordi, alcuni indicano Francesco da Gundria, altri fanno il nome di Gio Maria Olgiati, comunque nel 1543 il nuovo faro rinacque dal troncone del precedente. In realtà la sua linea più che ispirata al rinascimento sembra richiamare le linee medioevali, è costruito in due settori, quello inferiore, che finisce con una terrazza, è più largo ed è sovrastato da un altro troncone più stretto, su cui svetta un’imponente lanterna. La primitiva merlatura ghibellina è stata sostituita da un muro in pietra ed all’interno è stata costruita una scala in muratura per sostituire quella in legno del faro precedente. Il faro ha subito danni provocati dai fulmini, la lanterna è stata modificata nel tempo e sono stati eseguiti diversi interventi di manutenzione, ma dall’alto dei suoi 77 metri, che diventano 117 sul livello del mare, questa altera signora domina ancora Genova ed il suo fascio di luce è visibile per 26 miglia.



In un’Italia non ancora unita ogni Signoria, Repubblica o Principato che avesse uno sbocco al mare, e quindi un porto, costruiva il suo proprio faro. Ne abbiamo un esempio a Portoferraio, dove nel 1778 l’Arciduca Leopoldo di Lorena, che allora governava la Toscana, fece costruire sul bastione settentrionale di Forte Stella, eretto dai Medici, una torre alta 25 metri, in stile vagamente medioevale, con una merlatura sotto la lanterna. Solo nel 1860, quando anche l’Isola d’Elba è entrata a far parte del Regno d’Italia la torre è diventata un faro a tutti gli effetti, con una portata di 16 miglia. Questo è uno dei tanti fari italiani costruiti al di sopra di fortificazioni preesistenti, se ne possono citare altri : quello dell’isola del Tino, al largo di La Spezia, di Porto Azzurro, sempre sull’Isola d’Elba, il Faro di Forte la Rocca a Porto Ercole e la Torre di San Raineri a Messina. A Rimini, allora facente parte dello Stato Pontificio, nel 1733 l’architetto Luigi Vanvitelli costruì un nuovo faro, che fungeva anche da torre fortino per l’avvistamento dei pirati, e che sostituiva una vecchia torre finita interrata, per cui nel 1500, la luce era stata collocata sul campanile della Chiesa di S. Antonio da Padova. Il faro fu terminato nel 1754 da G.F. Buonamici, ha una forma quadrangolare, è alto 25 metri, è tutto dipinto di bianco, ed ha una portata luminosa di 15 miglia.



Regno11ArganIntanto anche l’illuminazione dei fari subisce una continua evoluzione, è necessario renderla sempre più brillante e visibile in modo che la loro luce si distingua da quelle della costa dove stavano crescendo nuove città e nuovi porti. Nel 1782 il fisico svizzero Aimé Argand (1755-1803) inventò un bruciatore circolare costituito da 10 stoppini alimentati ad olio che duravano per 10 giorni ed era posizionato in modo tale che l’aria veniva convogliata verso l’alto, rendendo la luce più visibile. Nel frattempo c’erano state diverse ricerche sul modo di rendere più visibile la luce tramite sistemi di specchi parabolici, sistema che fu perfezionato e messo a punto alla fine del 1700 dallo svedese Jonas Norberg (1711-1783) che inventò un tipo di lampada la cui luce era ampliata da specchi rotanti, azionati da un meccanismo ad ingranaggi e da contrappesi, manovrato a mano. Questo sistema è stato usato per molti anni a venire e ancora oggi, in molti fari, rimane come sistema di emergenza. L’orologiaio francese Bertrand Carcel (1750-1812) perfezionò la lampada di Argan nel 1800 progettando una lampada, sempre al olio, formata da più stoppini concentrici. Questo sistema di illuminazione rimase in uso per molto tempo, fino all’arrivo delle lenti di Fresnel.



E' solo nel 1800, il secolo della "farologia", che si vedono nascere delle meraviglie dell’ingegneria lungo non solo le coste dell’Italia, dopo la sua riunificazione, ma in tutta l’Europa, ed in seguito anche in tutto il mondo, proprio grazie ad un innovativo sistema di illuminazione. Il merito di questo va ad Augustin Jean Fresnel (1788-1827), un fisico ed ingegnere francese, che si era specializzato nello studio della rifrazione della luce. Nel 1822 egli progettò una lente da installare nelle lanterne dei fari che l’anno successivo sperimentò con successo nella lanterna del faro francese di Le Corduan e che oggi si trova al Museo del Faro di Ouessant. Questa lente innovativa è basata in realtà su un principio molto semplice : la sua forma è vagamente ovale ed una serie di anelli prismatici (catadiottrici) posti in alto ed in basso riflettono i raggi luminosi verso il centro, dove la lente principale li raccoglie e li proietta verso l’esterno. All’inizio queste lenti erano molto pesanti e si poneva il problema della loro rotazione e fu Fresnel stesso che risolse il problema posando dei galleggianti in un bagno di mercurio sui quali poi erano posate le lenti, che poi ruotavano utilizzando un sistema ad ingranaggi azionato a mano con dei pesi. Il mercurio ha una notevole densità e questo gli permetteva di sostenere notevoli pesi, riducendo al massimo l’attrito. In seguito il bagno di mercurio è stato via via abbandonato a causa della sua tossicità in caso di fuoriuscita, ma è rimasto il sistema ad orologeria con i pesi finché con il tempo si è arrivati al movimento su cuscinetti a sfere azionato da motori elettrici. Ma le lenti di Fresnel, sia pure modificate nel tempo per renderle più leggere e maneggevoli, ancora oggi si trovano nei fari di tutto il mondo.



Nonostante questa innovazione restava sempre il problema del combustibile, perché i fari, dopo aver utilizzato ancora per lungo tempo legna e carbone, funzionavano adesso ad olio, che però era costoso e necessitava di un continuo controllo. Nella prima metà del 1800 si era già passato gradualmente al gas ricavato dal carbone, utilizzato nell’illuminazione cittadina e nei fari a terra questo combustibile funzionava abbastanza bene. Questo procedimento era stato inventato dallo scozzese William Murdoch (1754-1839). Nel 1859, negli Stati Uniti, venne trivellato il primo pozzo di petrolio e questo cambiò il sistema di illuminazione dei fari che cominciarono a funzionare con oli estratti dal petrolio, soprattutto a base di paraffina che, abbinati alla lampada di Argan, dettero ottimi risultati. Nel 1885 l’austriaco Carl Auer Welsbach (1858-1929) inventò quella che poteva essere la prima lampadina, si trattava di una reticella di seta ricoperta di metallo alimentata da una miscela di gas di carbone e aria in un primo tempo ed in seguito con altre miscele di gas, che, diventando incandescente, produceva una fiamma molto luminosa. Nel 1892 la scoperta dell’acetilene, un composto chimico di idrogeno e carbone, dette una svolta all’illuminazione dei fari, permettendo di illuminare anche i segnalamenti in mezzo al mare. La sua luminosità si dimostrò nettamente superiore a quella di tutti i combustibili usati fino ad allora ed era anche infinitamente meno costosa, anche se richiedeva alcune precauzione nel suo uso. La tecnologia si stava evolvendo con il passare del tempo e tra la fine del 1800 ed i primi anni del 1900 cominciò gradualmente l’elettrificazione dei fari, che fu completata solo molti anni dopo. Dove non era possibile collegare i fari ad una rete elettrica, come nei fari in alto mare, l’elettrificazione è avvenuta tramite generatori elettrici a motore o, in tempi più recenti, per mezzo di energia alternativa, come la eolica o la solare. Anche le lampadine hanno subito modifiche nel corso degli anni e si è arrivati ora ai bulbi alogeni di 1000 Watt, usati in quasi tutti i fari.



Ma mentre tecnici e studiosi cercavano soluzioni per l’illuminazione dei fari la storia non si fermava. In Italia c’era voglia di unità nazionale e questa è stata raggiunta dopo anni di lotte clandestine, moti popolari, battaglie vinte e perse, eroi che hanno scritto il loro nome nei libri della storia, altri, altrettanto valorosi, il cui nome è svanito nel nulla, non è stato certo indolore, ma finalmente l’unità di’Italia è stata proclamata a Torino dal Re Vittorio Emanuele II° il 17 Marzo 1861, con l’esclusione di Roma, che ne diverrà parte e capitale solo dopo la sua conquista nel 1870.



A questo punto è diventato indispensabile provvedere ad una revisione dei fari esistenti, pochi ed antichi, se si considera che nel 1861 i fari in Italia erano circa 50, ed alla costruzione di nuovi, per illuminare gli 8000 Km. di coste italiane, senza contare gli scogli isolati in mezzo al mare, i porti, i promontori che si protendono sull’acqua e tutte le zone pericolose per la navigazione, che nel frattempo ha subito una grande evoluzione. I traffici marittimi si erano intensificati, ormai si navigava per tutti gli Oceani, si stava gradualmente passando dalla vela al vapore, ed il faro era diventato un elemento indispensabile per evitare disastri marittimi. Anche se alcuni fari erano già stati fatti costruire nella prima metà del 1800 su iniziativa del Regno Sabaudo nei suoi territori, molti ancora ne dovevano sorgere e occorreva intervenire, ed in fretta, ma i problemi erano molti. Prima di tutto bisognava considerare la ripartizione delle spese per la manutenzione dei manufatti, che prima dell’Unità d’Italia erano a carico di ciascuno degli Stati a cui appartenevano, così il 20 Marzo 1865 venne emanata una legge sulle opere pubbliche che comprendeva anche questa voce, e venne deciso che la ripartizione delle spese sarebbe stata a carico dello Stato per quello che riguardava tutti i segnalamenti di zone pericolose in alto mare, mentre le spese concernenti i fari nei porti di prima e terza classe sarebbero stati divisi in ugual misura tra lo Stato e gli Enti interessati, mentre quelli nei porti di quarta classe sarebbero state completamente a carico dei Comuni in cui si trovavano. In seguito, Vittorio Emanuele II° istituì nel 1868 la "Reale Commissione dei Porti, Spiagge e Fari", uno dei primi, importanti passi per la regolamentazione delle segnalazioni luminose esistenti sulle nostre coste. Nel 1873 venne realizzato dal Ministero dei Lavori Pubblici l’"Album dei Fari", la prima pubblicazione che comprendeva la planimetria dei fari, costruiti o in costruzione, indicando per ognuno il prospetto, la pianta ed alcuna caratteristiche tecniche, come la portata della luce, ed era completato da una carta intitolata "Carta del Regno d’Italia indicante la posizione geografica e portata massima della luce dei fari". E’ del 1876 il primo elenco completo dei fari italiani, pubblicato dall’’Ufficio Centrale Idrografico della Regia Marina, con sede a Genova, che richiese anche al Ministero dei Lavori Pubblici di poter istituire un Ufficio Tecnico a cui affidare la direzione generale di tutto il "Servizio fari e segnalamenti marittimi" in Italia. Questa proposta non ebbe seguito, comunque ci fu una lunga serie di "Commissioni" ed "Enti" preposti allo studio della situazione fari, finché il problema arrivò, nel 1879, al Parlamento. Venne istituita un’altra commissione, e poi altre ancora, ma solo nel 1885 fu varata la prima legge sui Fari, la N° 3095 del 2 Aprile, che stabiliva un "Programma organico dei Fari nazionali" che fu affidato al Ministero dei Lavori Pubblici. Ma nel frattempo le cose si erano mosse e i primi fari erano già stati costruiti. Anzi, tra i fari che l’Italia ha "ereditato", alcuni dei quali, come abbiamo già visto, molto antichi e bisognosi di restauri, ce n’era uno che era stato appena costruito per volontà del Regno Borbonico nell’intento di illuminare le coste Siciliane. Si trattava del faro di San Vito lo Capo, vicino a Trapani in Sicilia un grandioso faro costiero la cui costruzione fu iniziata nel 1854 e che fu acceso la prima volta il 1° Agosto 1859. La torre cilindrica alta 43 metri sul livello del mare, poggiava su un caseggiato ad un piano destinato ad alloggiare i guardiani del faro, il tutto dipinto di bianco, e la lanterna montava lenti Fresnel costruite in Francia con una portata di 18 miglia. Nel 1860 la Sicilia scelse per plebiscito l’annessione al Regno d’Italia ed il nuovissimo faro Borbonico diventò anch’esso italiano poco più di un anno dopo la sua inaugurazione. Bisogna dire che i Borboni non erano insensibili al problema fari, infatti il 27 Settembre 1848 era già stato emesso un "Regolamento del Servizio dei Fari presentato dalla Commissione dei Fari e Fanali, approvato da S.M. il Re (di Napoli), colle aggiunzioni ordinate con reale rescritto de’ 15 Novembre 1856", il quale contemplava tutte le norme per la costruzione, la manutenzione e la conduzione dei fari, comprendendo anche le mansioni dei guardiani e gli orari di accensione e spegnimento della lanterna. E’ interessante notare come alcune delle mansioni dei faristi elencate in queste antico Regolamento siano valide ancora oggi.


            





Nel 1865 un professore di nautica, il Cav. Luigi Lamberti, aveva pubblicato un volume intitolato "Descrizione generale dei FARI E FANALI e delle principali osservazioni esistenti sul litorale marittimo del globo, ad uso dei naviganti" nel quale dedicava molte pagine ai fari italiani, oltre a quelli di tutto il mondo, descrivendo per ognuno le coordinate geografiche, le caratteristiche della luce, la condizione, e indicando anche quelli che erano stati progettati o già in costruzione. Faceva anche un particolare appello perché il faro della Meloria, a quel tempo già approvato, venisse al più presto attivato data la pericolosità di quel tratto di mare. Faceva presente inoltre, con un avviso ai naviganti, a pag. 8, di quanti gradi era variata la bussola in Italia dal 1823, dando consigli su come seguire queste variazioni onde evitare "funestissime conseguenze". Una cosa interessante che si rileva da questo volume riguarda la Lanterna di Genova, in quanto l’autore raccomandava di tenersi alla larga degli scogli alla sua base. Questo faro, innalzato su uno scoglio in riva al mare, in seguito, con il passare del tempo, dopo la costruzione dell’aeroporto e l’allargamento del porto, ai giorni nostri è venuto a trovarsi ormai in mezzo ad un piazzale, ed ha perduto, per fortuna solo alla base, molto del suo fascino originale.

Un particolare interessante: nel suo elenco dei fari italiani il Prof. Lamberti, a pag. 15, inserisce la Basilica di San Pietro a Roma con queste indicazioni :



 

Intanto che la parte burocratica seguiva il suo iter con leggi ed interpellanze, la costruzione dei fari lungo le coste italiane era già iniziata. Anche se l’"Album dei Fari Italiani" redatto dal Ministero dei Lavori pubblici nel 1873 disegna le piante ed elenca le tipologie dei fari costruiti e da costruire, a quell’epoca i 50 fari "ereditati" dallo Stato Italiano erano già diventati un centinaio, per diventare circa 1000 ai giorni nostri, tra fari, fanali, mede e boe, sparsi lungo tutte le nostre coste. La tipologia dalla costruzione era piuttosto semplice, tenendo però conto di una certa diversità architettonica che si ispirava a stili precedenti, a seconda della località in cui erano posizionati. La caratteristica basilare del faro è quella di essere una torre, sulla cui sommità è situata la lanterna, una struttura circondata da vetri, all’interno della quale si trova l’apparato di illuminazione, il cui combustibile subirà nel tempo diverse variazioni, fino ad arrivare, ai primi del 1900, all’elettricità. All’esterno della torre corre un terrazzino che ha lo scopo di permettere al custode di tenere puliti i vetri dall’esterno. Una curiosità, nei paesi anglosassoni questo terrazzino viene chiamato "catwalk", passaggio del gatto, per indicare quanto di solito sia stretto ed agibile spesso da una sola persona. All’interno della torre una scala a chiocciola conduce alla "camera di servizio", e da qui una scaletta di ferro introduce nella stanza della lanterna. Nella camera di servizio si trova l’apparecchio ad orologeria che, a mezzo di due pesi che scendono lungo il vuoto della torre, fa girare l’apparato e che in quei tempi, andava azionato a mano ogni quattro o cinque ore, per tutta la notte. Da qui la necessità che in ogni faro si alternassero almeno due guardiani. Molti fari avevano anche, all’interno della lanterna, delle tende scure, che durante il giorno venivano chiuse per proteggere l’apparato lenticolare.


I fari situati all’ingresso dei porti erano solitamente costruiti come una torre, non essendo previsti gli alloggi per i guardiani, il cui stile variava, poteva essere a pianta rotonda o quadrata, ornata da una merlatura sotto la lanterna, o senza alcun ornamento, mentre quelli edificati in zone isolate, che necessitavano della presenza dell’uomo sia per il suo funzionamento che per le piccole opere di riparazione, prevedevano un caseggiato ad uno o più piani per gli alloggi, al di sopra del quale si trovava la torre, oltre al magazzino per il combustibile. Può sembrare che quasi tutti i fari italiani costruiti dopo il 1861, pur variando nello stile e nelle dimensioni, abbiano una tipologia molto simile : una costruzione che può essere quadrata o rettangolare, o a base trapezoidale da una parte e cilindrica dall’altra, come nel caso di quello dell’Isola di Cavoli, un isolotto disabitato che si trova all’ingresso del porto di Cagliari. Questo faro è datato 1858, ed è forse servito come esempio per quelli costruiti dopo l’unità d’Italia. Al centro, o a un lato della casa che fa da base, svetta la torre, la cui altezza può variare a seconda dell’altezza a cui è situato il faro. Se il faro è a livello del mare la torre sarà molto alta, se si trova in cima ad un promontorio, la sua torre avrà dimensioni più modeste. In tutti i fari però si cercava di combinare il lato estetico della costruzione con la sua funzionalità.


Subito dopo il 1861 iniziò una vasta campagna di costruzione di fari, che sorsero un po’ dappertutto. Uno dei primi fari ad essere costruiti in quello stesso anno è stato quello di Capo Ferro, sulla costa Nord Orientale della Sardegna, su un promontorio a 40 metri sul mare, quasi nel centro di quella che oggi è la turistica Costa Smeralda, ma ai tempi della costruzione il faro era completamente isolato e l’unico mezzo di trasporto erano gli asini. Il faro è formato da un bianco caseggiato a due piani, al centro del quale svetta la torre, a 66 metri sul livello del mare, sulla cui cima si trova la lanterna, sormontata da una cupola. Sotto la lanterna un terrazzino in pietra sporge verso l’esterno. Tutto l’edificio, come molti altri fari in Sardegna e soprattutto quelli situati in posizione elevata, è avvolto nella gabbia di Faraday, così chiamata dal suo inventore Michael Faraday (1791-1867), che la sperimentò nel 1836, una specie di enorme parafulmine, che evita che la struttura sia colpita dalle saette durante i temporali, e che l’avvolge tutta, dando spesso alla struttura un curioso aspetto a quadretti. Questo sistema sostituì o affiancò gradualmente i parafulmini, non sempre sufficienti ad evitare disastri. Quello di Capo Ferro è ancora uno dei pochi Fari abitati da un guardiano e dalla sua famiglia.


Le costruzioni si susseguivano ad un ritmo abbastanza veloce, nel giro di pochi anni, sempre in Sardegna, vennero costruiti altri fari, quello di Capo Bellavista, lungo la costa orientale dell’isola, vicino ad Arbatax, costruito nel 1866 : un grande caseggiato a due piani a strisce bianche e nere, sormontato da un lato da una bassa torre quadrangolare su cui è posata una grande lanterna, un po’ civettuola, in stile liberty, di costruzione francese, che poggia su un parapetto merlato, l’unico particolare che da a tutta la struttura un aspetto militaresco. L’altezza della torre sul livello del mare è 165 metri e la portata luminosa è di 25 metri. Tra i fari sardi non si può non citare quello di Capo Caccia, situato su un promontorio roccioso a circa 25 Km a Ovest di Alghero, proprio al di sopra delle famose Grotte di Nettuno. La sua collocazione è una delle più suggestive, al di sopra di uno strapiombo che porta l’altezza della torre, alta solo 24 metri, ad un altezza totale sul livello del mare di 186 metri. Questo faro è stato costruito nel 1864, è un caseggiato a due piani tutto bianco, anch’esso avvolto dalla gabbia di Faraday e recentemente ristrutturato, con una torre laterale che lancia la sua luce sul mare a 24 miglia. Anche questo faro è abitato dal Guardiano con la sua famiglia. Un altro importante faro, sempre in Sardegna, è quello di Capo Sandalo, che si trova sull’isola di San Pietro, il faro più occidentale d’Italia, davanti a lui passa tutto il traffico marittimo da e per lo Stretto di Gibilterra. Anche la tipologia di questo faro e simile ad altri, una casa in pietra a due piani, costruita nel 1864 a prezzo di grandi sacrifici, in quanto si trova su una roccia isolata, quasi una piramide, e le pietre venivano portate via mare, sbarcate ai piedi della roccia, e portate con i muli fino alla cima. Al centro della costruzione svetta la torre alta 30 metri, 138 metri sul livello del mare e lancia la sua luce a 28 miglia ogni notte. Il faro ha avuto il suo guardiano fino allo scorso anno, quando per lui è arrivata l’età della pensione ed ha dovuto lasciarlo dopo tanti anni di servizio. .


Anche lungo la penisola vecchi fari antecedenti l’Unità d’Italia vengono presto affiancati da nuovi fari, da Nord a Sud, e dal Tirreno all’Adriatico, nel giro di pochi anni tutte le coste italiane risplendono di luce nella notte. Il faro di Capo Mele, situato nella Riviera Ligure di Ponente, è uno di quelli costruiti poco prima dell’Unità d’Italia, nel 1856, ma è già comunque incluso negli elenchi dei fari italiani ed è uno dei primi che si incontrano in Liguria arrivando dalla Francia. E’ una bella palazzina a tre piani, colorata di quel rosso che tanto risalta nelle case della terra ligure, a cui è addossata una torre ottagonale bianca, alta 24 metri, che si eleva sul mare per 94, e la cui luce ha una portata di 24 miglia. Sulla Riviera di Levante, di fronte a La Spezia, si trova l’Isola del Tino, già famosa per il monaco San Venerio, sulla quale, nel 1885, è stata costruita una torre al di sopra di un forte napoleonico, che si eleva per 117 metri sul livello del mare, vicino ad una vecchia torre che risale al 1840, ora dismessa, voluta da Carlo Alberto di Savoia. Al di sopra della torre spicca un’alta lanterna di fabbricazione inglese, un’eccezione rispetto alle altre lanterne italiane costruite quasi tutte in Francia.

 

 

Scendendo lungo la costa Tirrenica incontriamo la magica Isola di Capri, sulla quale si trova una dei più suggestivi fari italiani, situato sul lato Sud/Ovest dell’Isola, il faro di Punta Carena, costruito nel 1867, lontano dalla Capri turistica, è proteso sul mare su uno scoglio che assomiglia appunto alla carena di una nave rovesciata. E’ una bellissima costruzione in tufo di Sorrento, dipinta a colori pastello, un caseggiato a due pianti su cui troneggia la torre poligonale con gli angoli bianchi, alta 25 metri, 73 sul livello del mare, sormontata da una grande lanterna a otto facce, la cui luce raggiunge le 25 miglia. Si racconta che su quest’isola esistesse già un faro quando Tiberio ne aveva fatto il suo rifugio preferito, una torre che crollò nel 37 d.C. e che pare si trovasse vicino al punto in cui si trova il faro attualmente.



Sull’estremità Sud/Orientale della Sicilia troviamo il faro di Cozzo Spadaro, costruito nel 1864, ha un’architettura particolare, diversa da quella di altri fari. Sopra un edificio ad un solo piano, la torre ottagonale, alta 36 metri poggia su un basamento di forma vagamente cinquecentesca, che da a tutta la costruzione un aspetto imponente. La lanterna si eleva a 83 metri sul livello del mare ed ha una portata di 34 miglia.





Al largo della costa occidentale della Sicilia si trova l’Isola di Marettimo, una delle Egadi, e sulla costa Sud dell’Isola, a Punta Libeccio, si erge il faro omonimo, costruito nel 1856, arroccato su un roccione a 24 metri sul mare. E’ un casone bianco, a due piani, interrotto da una striscia nera sulla quale sta scritto il nome del faro, sormontato da una torre poligonale, anch’essa bianca con una striscia nera, che lancia un lampo fino a 37 miglia, quasi incrociando la luce del faro di Capo Bono, in Tunisia, che è proprio al di la del mare. Ritornando sulla penisola e risalendola troviamo per primo il faro di Capo Spartivento, nel punto un cui la Calabria più si avvicina all’Africa, una costruzione bianca, a due piani, risalente al 1867, sormontata da una torre quadrata alta 19 metri, che si eleva sul mare per 81, e che lancia una luce non molto potente, visibile solo a 11 miglia. Arriviamo sull’estremo lembo Sud d’Italia ed incontriamo il faro di Santa Maria di Leuca, risalente al 1886, sempre un fabbricato bianco a due piani, come se la fretta di costruire non avesse permesso alla fantasia degli ingegneri ottocenteschi di uscire da un certo schema, ma comunque è ingentilito dalla bellezza del paesaggio lo circonda e la torre, alta 48 metri che si eleva a 102 metri sul mare, lancia il suo lampo bianco a 34 miglia.


Risalendo per la costa orientale della penisola, lungo le coste dell’Adriatico, fino a Trieste, incontriamo ancora molti fari, anche se inferiori per numero e portata di quelli della costa Tirrenica, e costruiti in tempi più recenti, ma non è possibile soffermarsi su tutti, ogni faro avrebbe la sua storia da raccontare, e con il passare degli anni ormai il Regno d’Italia è riuscito ad illuminare le sue coste. Questo lavoro di consolidamento continuerà nel tempo, considerato che nuovi fari sono stati costruiti in Italia fino al 1965. Ma intanto i fari vanno gestiti, bisogna fare lavori di manutenzione, così vicini al mare le strutture vengono rose dalla salsedine, e questo è compito del Ministero dei Lavori Pubblici, finché nel 1910 appare su un portolano inglese una nota con la quale si avvisano i naviganti di quella nazione che "I fari ed i segnalamenti marittimi lungo le coste del Regno d’Italia non danno affidamento alcuno per cui i naviganti si regolino di conseguenza……….". Una simile annotazione, scritta dagli inglesi, da sempre considerati abili navigatori, doveva aver creato non poco scompiglio, infatti fu deciso di correre subito ai ripari, ed in quello stesso anno vennero emanate due leggi, la N° 2 e la N° 75 con le quali la Regia Marina diventava responsabile di tutti i servizi marittimi e con Regio Decreto 17 Luglio 1910, N° 568 venne stabilito che "Il servizio dei fari e degli altri segnalamenti marittimi, fatta soltanto eccezione per la costruzione e la riparazione straordinaria dei manufatti, passa dal Ministero dei Lavori Pubblici alla dipendenza del Ministero della Marina" che era sicuramente l’Ente più adatto a gestire e segnalazioni marittime e che iniziò un progetto di ammodernamento e di nuove costruzioni, tanto che nel 1916 i fari in Italia erano diventati 512.


Ma non si può parlare di fari senza parlare del Guardiano del faro, questo personaggio che ha tanto colpito l’immaginario collettivo, quest’uomo sospeso tra mare e cielo, padrone di una nave ancorata al terreno, uomo di terra, ma in realtà marinaio, di solito un uomo reso schivo dalla solitudine, ma coraggioso, capace di assistere alla più terribili tempeste, ed alle volte eroe, quando gli capita di salvare dei naufraghi di un vascello che si è schiantato ai piedi del suo faro. Quest’uomo è spesso così innamorato del mare da poter vivere dentro un faro, a contatto con esso e da considerarlo un privilegio. I primi fari costruiti dopo l’Unità d’Italia funzionavano ancora con combustibili diversi, alcuni addirittura con olio d’oliva, paraffina, vapori di petrolio, acetilene, fino all’arrivo graduale dell’elettricità ai primi del 1900 e la presenza dell’uomo era indispensabile per il funzionamento della lanterna. Questi primi fari prevedevano almeno tre appartamenti per un guardiano capo, un assistente ed una terza persona sottoposta per tutte le altre mansioni. La figura del guardiano era necessaria perché le lanterne dei fari dovevano essere accese e spente a mano e continuamente alimentate, i vetri andavano tenuti puliti, qualunque fosse il combustibile usato, il congegno ad orologeria doveva essere caricato ad ore precise per non fermare la rotazione della lanterna, all’interno della quale si trovavano spesso delle tende, che andavano chiuse durante giorno perché il sole non danneggiasse l’apparato lenticolare, e tutto questo richiedeva la presenza di più di un uomo. In quell’epoca era normale che i guardiani portassero con se le famiglie, anche se in zone isolate e disagiate, così si creava una piccola comunità dove anche le donne avevano le loro mansioni, come ad esempio fare il pane, nel forno di cui molti fari erano dotati, ed essere coraggiose come i loro uomini. Spesso i bambini devono percorrere a piedi dei lunghi tratti per andare a scuola, ma anche questo faceva parte di quella scelta di vita. Il problema maggiore erano gli approvvigionamenti, ed allora ecco crescere vicino ai fari dei piccoli orti, si vedevano galline razzolare, una gabbia con qualche coniglio, e gli uomini, nei momenti liberi, si dedicavano alla pesca per variare la tavola. Nei fari su isolotti in mezzo al mare, dove poteva succedere che a causa delle condizioni atmosferiche i rifornimenti tardassero per giorni, la situazione poteva diventare tragica, e uomini, donne e bambini dovevano sopportare i crampi della fame o ingegnarsi, magari cacciando gabbiani, come si racconta sia veramente successo sull’Isola di Cavoli negli anni ’30 del 1900.

Ora si dice che i fari non siano più necessari, che sofisticate attrezzature elettroniche e satellitari possono guidare le navi nel buio più assolto, ma non è vero, il faro continua ad essere una presenza rassicurante, un amico del navigante, quando lo vede brillare. Il faro non è solo uno strumento dotato di una segnalazione ottica luminosa situata in mezzo al mare per indicare un pericolo, è un guardiano della notte, è una sentinella del mare, il suo fascio di luce dice alla nave che passa entro la sua portata "Stai attento, vira e destra, o a sinistra, qui c’è un pericolo serio, gira alla larga". I tempi sono cambiati dal quel lontano 1861, quando costruire Fari era diventata una sfida ed una necessità, ora i fari stanno andando in rovina, quelle grandi costruzioni adatte ad ospitare tre o quattro famiglie sono abbandonate, le lanterne sono state tutte automatizzate ed anche la figura del guardiano sta gradualmente sparendo, l’unico che ancora poteva prendersi cura del faro, ripararlo, tenerlo in piedi. Per alcuni guardiani moderni ancora in servizio è un punto d’orgoglio mostrare le scale a chiocciola della torre ben pulite, gli ottoni lucidi, i vetri della lanterna luccicanti, l’apparecchiatura ad orologeria, ormai inservibile, ma sempre al suo posto, tenuta in ordine come se da un momento all’altro la manovella dovesse essere manovrata per far scendere il peso che faceva girare tutto l’apparato illuminante.

Chi va per mare si augura che queste magnifiche strutture non debbano mai sparire, e questo non succederà, anche se purtroppo per molti di loro a questo ci hanno già pensato le incurie e le intemperie, e poi la navigazione di piccolo cabotaggio, i diportisti, i pescatori, ma anche le grandi navi contano ancora molto su di loro, la tecnologia può subire un’avaria, un qualsiasi tipo di black-out, ed allora cosa meglio della vista di quella luce lontana e rassicurante, di quell’occhiolino benevolo, quella luce che si accende quasi miracolosamente ogni sera e che dice cosa fare e dove andare. Molti si augurano di vederli funzionare per molti anni ancora.


 

     

Faro di Capo Caccia, Alghero - sardegna

 

 

Bibliografia :

E. Simonetti - – Luci ed eclissi sul mare – Laterza 2005

A.M.L. Mariotti –-  Fari – White Star 2005

C. Bartolomei –- L’architettura dei fari italiani – Alinea Editrice 2006

C. Manfredini, A.W. Pescara –- Il libro dei Fari Italiani – Mursia 1985

L. Lamberti -– Descrizione generale dei Fari e Fanali – G. Fabbreschi, Livorno 1865

F. Fatta -– Luci del Mediterraneo, Fari di Calabri e Sicilia – Rubettino 2002

P. Leonardi-Cattolica, A. Luria -– Fari e Segnali Marittimi – Doyen di L. Simonetti 1916

 

 

 




 
 
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